“Estetica della giustizia penale. Prassi, media, fiction”: accesissimo dibattito al BAFF 2017 sul nuovo libro di Ennio Amodio
Giustizia, media, processi. Termini ormai all’ordine del giorno per tutti, che hanno sconfinato dalle aule giudiziarie e sui quali è necessario riflettere a fondo partendo da un presupposto: “Se le forme danno l’idea al popolo di un giudizio non tumultuario o interessato, ma stabile e regolare (Dei delitti e delle pene, Cesare Beccaria, 1764), allora etica ed estetica diventano elementi essenziali nella forma del processo, in quanto strumenti attraverso i quali il cittadino acquisisce certezza del diritto e conferma della legalità dei procedimenti”.
Da qui l’interessante saggio Estetica della giustizia penale. Prassi, media, fiction scritto dall’avvocato Ennio Amodio, al centro di un convegno che si è svolto martedì 22 marzo 2017 presso la Sala Tramogge dei Molini Marzoli a Busto Arsizio, all’interno del palinsesto del B.A. Film Festival 2017 (per scaricare il programma completo della manifestazione, in svolgimento dal 18 al 25 marzo 2017 CLICCA QUI).
Il dibattito, dai toni accesissimi, è stato coordinato da Alessandro Munari, avvocato e presidente del BAFF; al tavolo dei relatori l’autore, l’avvocato Ennio Amodio, il giornalista Gianluigi Nuzzi, il presidente del Tribunale di Busto Arsizio, Carmelo Leotta e il critico cinematografico Gianni Canova.
Munari ha moderato momenti di tensione e scintille scaturite fin da subito attraverso le prime battute del giornalista Gianluigi Nuzzi, che ha aperto il proprio intervento affermando che “Giustizia certa, equa e rapida sono aggettivi che in Italia fanno ormai quasi sorridere.”
“In Italia il 90% dei furti rimane impunito, il 60% delle rapine rimane impunito, il 50% degli omicidi rimane impunito – ha rincarato Nuzzi –. Un assassino su 2 è libero e tranquillo. Questo è un problema di estetica”.
“Siamo in una società altamente mediatica – ha aggiunto il giornalista e scrittore –, dove il Prof. Amodio ha delle ottime idee, ma che rievocano una società che non c’è più. Oggi sono tutti cronisti e la velocità della comunicazione è immediata.”
“Il sistema è estremamente malato – ha proseguito ancora Nuzzi –, perché questa società mediatica esprime anche delle patologie: l’avvocato che vuole andare in televisione a tutti i costi, e il magistrato che indaga nomi che fanno rumore pur di avere il titolo in prima pagina”.
Non si è fatta attendere la risposta di Carmelo Leotta, presidente del Tribunale di Busto Arsizio: “Nessuno sostiene che la giustizia nel nostro Paese funzioni a perfezione e i giudici siano infallibili. Anzi, nel saggio in oggetto, il Prof. Amodio mette in rilievo degli inestetismi interni ed esterni al sistema”.
“In questo testo – ha proseguito Leotta –, ci si chiede che effetto ha il processo mediatico fatto mentre è in corso quello giuridico, partendo dal presupposto che il processo mediatico non ha delle regole, mentre quello giuridico sì. Da qui la necessità di chiedersi quale effetto questo ha su chi assiste al processo mediatico stesso”.
“L’effetto è devastante – ha concluso il presidente Leotta –, perché si usano parametri e mezzi diversi per ottenere uno stesso risultato: giustizia. Ma in nome del popolo televisivo o del popolo italiano?”.
Leotta ha parlato quindi dei drammatici quanto discutibili fenomeni nati quando la giustizia mediatica ruba la scena a quella togata, come il “turismo lugubre” in nome del quale, ad esempio, sono stati organizzati pullman alla volta di Avetrana, luogo della tragica uccisione di Sara Scazzi.
Qui anche la riflessione del critico cinematografico Gianni Canova, che ha ricordato quanto esista una tendenza per cui “viviamo ormai in un paradigma culturale in cui c’è più desiderio di vedere corpi martoriati e che soffrono, piuttosto che corpi che godono”.
“Io cerco di ragionare su come viene rappresentata la giustizia nel suo immaginario, e nella sua narrazione, attraverso il cinema – ha ulteriormente sottolineato Canova, allargando il tema dalla televisione, al grande schermo. –. Se la televisione è la diretta, il cinema è la differita. Arriva volutamente dopo, e ha il tempo di elaborare e strutturare un racconto. Il cinema ha nutrito un immaginario tutto sommato disfunzionale della giustizia, spesso vissuta principalmente come arbitrio. Forse partendo da qui è necessaria qualche riflessione per capire come mai l’immaginario prevalente della giustizia, almeno nutrito dal cinema, rappresenti il processo come un abuso. In questo senso, basta ricordare qualche titolo, come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Elio Petri, 1970), Detenuto in attesa di giudizio (Nanni Loy, 1971), In nome del popolo italiano (Dino Risi, 1971).
“Da spettatore – ha osservato ancora Gianni Canova –, per una sorta di empatia, stai dalla parte del cittadino. Ed è molto più difficile raccontare una giustizia ‘giusta’, piuttosto che criticarla. Su questo bisognerebbe riflettere, sul se e come produrre narrazioni che cerchino di iniettare dei modelli positivi”.
I toni si accendono ancora alla replica di Gianluigi Nuzzi, che porta al centro del dibattito l’attualissimo film di Roberto Faenza La verità sta in cielo, sul caso di Manuela Orlandi. Secondo Nuzzi, infatti, dall’ultima scena della pellicola lo spettatore evince l’esistenza di una commistione di interessi tra poteri, partendo dal presupposto che lo stesso Faenza avrebbe dichiarato che tutto quanto riportato nel film è vero.
“In Italia su certi argomenti è meglio non parlare, si può anche subire un processo in Vaticano mi verrebbe da dire – ha osservato non senza ironia Nuzzi. – Non siamo in una situazione normale – ha affondato ancora -: siamo in una situazione dove esiste una giustizia fortemente malata, dove c’è un’informazione fortemente limitata”.
A questo punto ha preso la parola l’avvocato Amodio, riportando il dibattito al suo centro: “L’idea di fondo del saggio in oggetto è quella di vedere in quale modo viene percepito il processo nella sua dimensione, che dovrebbe essere costituzionale, rispetto ai valori di fondo che sono quelli del contraddittorio, della presunzione di innocenza e dell’imparzialità del giudice”.
Il processo, ha spiegato l’autore del libro, non solo dev’essere stabile e regolare, ma anche al suo esterno (media e canali televisivi) deve poter fornire una rappresentazione della giustizia frutto di un preciso equilibrio e imparzialità.
In questo senso Amodio si si è soffermato brevemente sulla questione della presenza, ancora, delle gabbie all’interno delle aule di tribunale: “Mentre tutta l’Europa continua a discutere della loro abolizione e della trasformazione dell’aula di udienza come luogo in cui si possa subito percepire la presunzione di innocenza, noi ci avvaliamo invece ancora di questo strumento medievale. La gabbia è inserita là dove si fa l’accertamento e si pronuncia la sentenza, e sembra raccontare all’esterno una posizione di colpevolezza, con la proiezione di un soggetto che è già condannato in quanto dietro alle sbarre. Questo è un aspetto dell’estetica che io ricollego all’ambiente. Altri sono quelli già citati che riguardano la posizione delle parti e del giudice”.
Tornando alla giustizia mediatica, Amodio parla del “ruolo che la stampa e la televisione hanno nel nostro Paese nel raccontare il tema della giustizia. All’esterno si dovrebbe poter percepire una vicenda nella quale, quando si giudica una persona, non si ha davanti un colpevole, e non c’è un giudice che con uno scettro già afferma la colpevolezza del soggetto. E non si giudica in base a frammenti e approssimazioni conoscitive, ma sulla base di quelle prove che costituiscono il supporto per la nostra civiltà giuridica. Per secoli si è combattuto contro quell’inquisizione e quelle forme di fatti di reato che necessariamente passavano attraverso la scorciatoia di prove abborracciate, presunzioni e ‘ammennicoli di prova’ – come si diceva nel medioevo – ”.
Soffermandosi ulteriormente sul ruolo delle trasmissioni televisive e dei talk show che raccontano fatti giudiziari, l’avvocato Amodio ha sottolineato inoltre come tali programmi ingenerino “sofferenza nello spettatore”, poiché si addentrano nei meandri di un colpevolismo sottinteso. “Non si parla di ciò che accade veramente – afferma –, ma si ipotizza uno scenario compatibile con quello che un giurista e un magistrato può pensare”.
Il talk show, sostiene infatti il Prof. Amodio nel suo saggio, racconta storie che si sovrappongono all’indagine giudiziaria creando uno strappo, poiché mentre i magistrati in toga indagano secondo i principi predefiniti e di legalità, il talk apre invece uno squarcio che pretende di rivelare una verità non fondata su principi processualisti, basata su rumors e congetture che niente hanno a che vedere con il mondo processuale, ma danno come percezione esterna l’idea e l’intento di sostituirsi ai magistrati. Questo “arrivando a conclusioni deviate”, ha specificato durante il dibattito Ennio Amodio, portate da retorica colpevolista, avulsa dagli strumenti di accertamento costruiti dalla giustizia, e responsabile di creare una forte confusione nello spettatore, che non è più in grado di dirigersi nel rapporto tra verità processuale e verità mediatica.
“Queste notizie sono fornite con metodi e strumenti diversi da quelli che vengono utilizzate per formare il giudizio – ha aggiunto il presidente del Tribunale di Busto Arsizio, Leotta –. Di conseguenza, se quei canoni sono il fondamento della nostra democrazia e vengono eliminati, non è più processo e non è più giustizia”.
Repentina la replica di Nuzzi: “Fate processi con sentenze certe, invece di criticare la televisione”.
Il dibattito è stato concluso dall’intervento dell’avvocato Munari; il presidente del B.A. Film Festival ha sedato gli animi riconoscendo, nell’interpretazione mediatica e in particolare televisiva della giustizia, un intento anche volto alla ricerca di una eventuale innocenza o visione alternativa ai casi ancora non conclusi dalla magistratura, seguendo non necessariamente un’esclusiva retorica della colpevolezza. Questo non senza dimenticare, tuttavia, che “esistono principi che sono di tradizione giuridica millenaria – ha ricordato Munari –. Quando un procedimento ha già accertato una certa realtà processuale, se dopo si scopre che il colpevole era innocente o viceversa, esistono norme specifiche per la salvaguardia di tutti noi. Non si può ripetere il processo dopo quindici giorni, ma esistono specifiche guarentigie che prevedono procedure e strumenti giuridici idonei per intervenire. Probabilmente – ha concluso l’avvocato Alessandro Munari -, l’equilibrio va trovato tra queste due posizioni.”
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V.P.